Ecco il decimo capitolo de “Le statistiche del trenino“.
Se vi siete persi il nono capitolo lo trovate qui.
BluttaBlatta vi augura buona lettura.
Ottobre
Nando è morto.
Ottantadue anni e il cuore ha smesso di battere. Così, senza clamore.
Sull’altopiano sono tutti attoniti e increduli. Di quell’incredulità che non ti permette di capire appieno la gravità della situazione. Quel limbo al quale, a posteriori, aneliamo e che giudichiamo salvifico.
Lo ha trovato Lucia.
Come d’abitudine è salita presto all’altopiano questa mattina. Dal paese è partita a cuor leggero, ma una strana sensazione l’ha pervasa durante la salita. Cammina Lucia e c’è qualcosa che non torna. C’è qualcosa di strano in queste prime ore del giorno. C’è qualcosa che manca. Manca il canto dei fringuelli e lo stormire delle foglie. Nessun passerotto svolazza ai lati del sentiero e pure il fiume sembra più silenzioso del solito. Il bosco è fermo e l’aria rarefatta. C’è decisamente qualcosa che non funziona oggi.
Lucia avverte un senso di minaccia incombente e accelera il passo. Vorrebbe poter correre, ma questo le è negato. D’altronde, se veramente c’è una minaccia, non ha senso correrle incontro. Prosegue in salita, più spedita che può. Si ferma a prendere fiato appoggiandosi al vecchio faggio distorto e si accorge di un’altra assenza. Napo e Bubu non le sono venuti incontro.
Il camino della Cascina Marì è freddo e dal comignolo non esce il fumo di casa. Il molosso è accucciato davanti alla porta d’ingresso, mentre il barboncino abbaia da dietro il vetro. La porta si apre al solo tocco delle dita e Lucia entra nella buia e piccola cucina.
Il fuoco è spento.
Poi lo vede.
Prizziello è accomodato nella sua vecchia poltrona di pelle. Lucia si avvicina, cautamente. Da un momento all’altro Nando si volterà e scatterà in piedi con l’ausilio di Pango. Non succede niente. Lucia sfiora la mano del nonno adottivo.
Una mano innaturalmente abbandonata lungo il consunto bracciolo.
Le dita sono rigide e gelide.
La testa crolla sul petto.
Gli occhiali scivolano a terra e le lenti si frantumano in mille scaglie dorate.
Lucia urla.
Del funerale si è occupato Fabio. In un frangente dove nessuno ha avuto la freddezza di mantenere il senso pratico, lui è riuscito a far fronte alla marea emotiva. C’era molta gente alla funzione. Meno di quanta si aspettava Lucia, ma più di quanta avrebbe mai immaginato Nando. Sulla bara è appoggiato un mazzo di fiori con una dedica: “Al comandante della legione dell’Altopiano”. Lo sparuto gruppo di anime ha bisogno di ritrovarsi compatto sotto ad una nuova guida. Lucia sa che le spetterà quel ruolo, ma non riesce a farsene carico ora. La sostituisce egregiamente Fabio: capitano ad interim.
Al funerale si è presentata anche Ana. Odia i funerali e ben si è guardata dall’entrare in chiesa. È sola, sul sagrato, che riflette sui cambiamenti avvenuti nelle loro vite nell’arco di pochi mesi. Lucia rivolge uno sdegnato sguardo agli addetti delle pompe funebri mentre calano la cassa nella fredda tomba del piccolo cimitero. Sa bene che non verrà mai a trovare Nando in questo loculo che, se possibile, mette addosso ancora più tristezza. Prizziello non è chiuso in quelle quattro assi di rovere. Nando è in ogni pietra delle cascine in restauro, in ogni albero dell’altopiano, in ogni conquista dei suoi soldati. Ora, vedendo un Pippo, Lucia avrà due persone a cui pensare: la vecchia nonna gagliarda e il vecchio burbero rompiscatole.
La buca viene chiusa con una lastra di marmo. È la tomba di Marì che ora, con inconsapevole generosità, è diventata anche di Nando. Sulla nuova lapide splende una fotografia della coppia. È la foto del loro matrimonio e irradia, a 60 anni di distanza, una felicità intensa e quasi sovrannaturale. Sotto la foto, incisa a perenne memoria, una scritta: “Da soli è bello, ma insieme lo è molto di più”.
Il notaio ha finito di leggere il testamento. Unica erede è Lucia. Ha fatto le cose per bene Nando, senza dirlo a nessuno. Ha venduto la casa e i soldi sono destinati a Lucia. Il mappale numero 153 anche. L’altopiano ora è tutto in un’unica proprietà. I pochi oggetti personali sono, insieme alla cascina, parte integrante dell’eredità con il desiderio del defunto – fredde parole da notaio – di darli a chi ne ha più bisogno. Lucia esce dal moderno studio legale con parecchi soldi in più rispetto a quando è entrata. Li darebbe indietro tutti pur di avere ancora la guida forte e sicura del defunto, sempre per dirla con ciniche espressioni da impolverato e avvezzo legale. Le è stato consegnato anche un piccolo baule e la chiave per aprirlo. Aspetterà la solitudine di casa per scoprirne il contenuto.
Oggi il vento soffia impetuoso e la pioggia sferza l’ombrello che ondeggia ad ogni folata. Le lacrime di Lucia si fondono e confondono con quelle del cielo. La diga ha rotto gli argini. Si accascia su di una discosta e bagnata panchina. In pochi minuti è fradicia, ma neppure se ne rende conto. Tutta la strada, tutto il percorso, tutti i progetti degli ultimi mesi le sembrano ora vani e, a tratti, deleteri. Qualche sparuto passante la guarda con malcelata diffidenza. La paura del diverso è più forte della compassione. Passano le ore e scende la notte. Lucia è immobile al buio. Il cellulare squilla ininterrottamente, ma non ha la forza di rispondere. Lucia è crollata.
È passata una settimana dall’appuntamento con il notaio e il tempo è tornato splendido. Una bella giornata di mezzo autunno che è come un regalo dal cielo. La febbre sta scendendo e il corpo di Lucia riesce, finalmente, a lasciarsi alle spalle i postumi di una notte all’addiaccio. L’ha trovata il Fabbro il giorno dopo. Semi-svenuta e con un principio di congelamento. Prognosi di dieci giorni, riposo a letto e brodo di pollo.
Lucia si trascina sul divano. I corti capelli stanno ricrescendo e i disordinati ciuffi le coprono occhi e occhiaie. Sul tavolino del piccolo salotto è abbandonato il baule di Nando. Fabio non lo ha aperto. Questo compito, per gravoso che sia, spetta solo a lei.
Una parte di Lucia si rende conto che morire con Nando non ha alcun senso. Un’altra parte vorrebbe solo sprofondare nell’abisso. Svogliatamente prende la piccola chiave e la gira nella toppa. Il baule straripa di ricordi. Foto di Nando e tante, tantissime foto di Marì, documenti e carte, quelli che paiono verbali di polizia e referti di Pronto Soccorso. Insieme ci sono lasciapassare delle SS e ricette di pane e pagnotte. Lettere d’amore e il necrologio della Signora Prizziello. Lucia non capisce il senso di tutto quell’insieme di carta e sentimenti alla rinfusa. Poi la vede. Nella tasca di stoffa consunta, cucita all’interno del coperchio reclinabile del baule, c’è una busta indirizzata a lei. Con mano tremante strappa l’involucro di spessa carta giallastra. Le cadono in grembo tanti fogli scritti nella minuta grafia di Nando. Una lacrima scorre sulle gote scavate dalla malattia. Gli occhi annacquati iniziano a decifrare il racconto di una vita.
Ahh Lucì,
se leggi questa mia è perché sono nel regno dei morti. Se inferno o paradiso starà a te giudicare. Hai avuto l’innocente pretesa di capire tutto di me. Un irrefrenabile desiderio di avere un’ancora a cui aggrapparti, mi ha trasformato ai tuoi occhi in un vecchio burbero, ma buono, senza colpe e senza peccato. Non è così.
Te vojo bene assai Lucì e, per questo, voglio raccontarti una storia: la mia storia.
Sono nato tanti anni fa, forse troppi, in un paesino abbarbicato tra il cielo e il mare. Ho aperto gli occhi in un panificio e al primo respiro ho riempito i polmoni di farina. Ma quanto è buono il pane? Quel sole tondo che portiamo in tavola ogni giorno? Lo amo assai.
Tornando a noi. Erano anni difficili. Povertà e miseria accompagnavano le giornate. Il panificio lavorava bene, ma ero l’ultimo di 11 fratelli e altrettante bocche da sfamare, membra da vestire e menti da riempire. Mia madre è uscita pazza per il troppo lavoro e le tante gravidanze e l’ho sempre conosciuta dietro alle sbarre del manicomio giù in città. Una visita una volta al mese e un calcio in culo di resto.
Mio padre ci amava assai, ma le carezze si accompagnavano agli scappellotti. Di botte ne ho prese tante Lucì. Parecchie meritate, altre gratuite. Ricordo una volta, avrò avuto 3 o 4 anni, che ho fatto bruciare un’infornata di filoni. Mi ha fatto una faccia accusì. Mancava poco che mi spaccava la zucca. In quel momento è entrata Annina, la mia sorella più grande. Ventitré anni e una bellezza sorprendente. Aveva nel corpo il calore della terra e del sole e gli occhi color nocciola erano buoni e un po’ tristi. Se ne era accorto anche papà. Stavano sempre assieme e lei riusciva a calmare botte e male parole. Si è suicidata a 25 anni. Non ho mai voluto indagare il perché. Quando l’amore è distorto, non è più amore.
Ohh Lucì… non pensare che la mia infanzia sia stata una tragedia. C’era la guerra, ma con i miei fratelli ridevamo anche tanto. D’estate diventavamo pesci e le giornate al mare erano regali preziosi. Ci tuffavamo per catturare i ricci che spaccavamo sugli scogli e mangiavamo ancora vivi. Scivolavano giù per la gola e li sentivi muovere fin dentro lo stomaco. Una vera bellezza! Ne combinavamo di tutti i colori.
La guerra ha portato via 3 fratelli e 2 sorelle sono poi partite per l’America. Ah l’America! Ho sempre sperato di andarci un giorno o l’altro.
Alla fine della guerra siamo rimasti in sei a mandare avanti il panificio. Mio padre è morto e riposa, con i suoi peccati e le sue virtù, nel cimitero di fianco alla chiesetta di Nostra Signora del Bambinello.
Siamo rimasti in cinque. Una sorella si è sposata con un boss in odore di mafia e chi l’ha più vista.
Siamo rimasti in quattro. Due fratelli, i due gemelli, Calogero e Antonio Prizziello hanno ritirato il panificio e, da quanto ne so io, ancora oggi i loro nipoti lo portano avanti. Io e Sofia, invece, siamo partiti per il nord.
Avevo 18 anni, lei 20, e una vita che si dischiudeva davanti. Sofia è entrata in Svizzera a fare la governante. Era da qualche parte al nord delle Alpi, dove si parla il tedesco. Amava i bambini Sofia e ha fatto una bella vita felice. Umile, per certi aspetti, ma serena. Ci siamo sentiti spesso negli anni e tutte le estati veniva a trovare me e Marì per due settimane. Qualche volta, a Natale, la raggiungevamo noi. È morta pochi anni fa, nel sonno. Semplicemente non si è più svegliata. Che bella morte Lucì… spero di essere morto nello stesso modo.
Comunque torniamo a noi. Una volta messa Sofia sul treno per la Svizzera, sono rimasto solo nella nebbia del nord. Diciotto anni, grandi speranze e poco sale in zucca. Voglia di lavorare ne avevo per forza, non certo per piacere. Ho trovato un posto come muratore e ho iniziato a costruire. I muri, storti all’inizio, diventavano sempre più dritti man mano che crescevo io e aumentava l’esperienza. Ero considerato un buon lavoratore e avevo qualche amico da osteria. In definitiva, però, ero solo. Poi ho incontrato lei. Ho incontrato la mia Marì.
L’ho vista una sera mentre attraversavo il ponte sul fiume. Io avanzavo gobbo e con la schiena a pezzi dopo una giornata passata a spostare mattoni. Lei era lì. Incedeva con fare sicuro, bella anche dopo una giornata passata a filare. Bella e regale come una regina, nonostante la gonna rattoppata e le scarpe lise dal tempo. Una donna tutta d’un pezzo la mia Marì. Così ho iniziato gli appostamenti. Mattina e sera studiavo i suoi movimenti per capirne gli orari. Arrivavo addirittura a pedinarla fino al lavoro per capire dove andava. Non sapevo niente di lei. Neppure come si chiamava. Era una forza della natura Maria e l’intelligenza, seppur semplice e con un’istruzione da terza elementare, era brillante e vivace.
Una sera, mentre le facevo la posta fuori dal suo posto di lavoro, sicuro di non essere notato, sento battere sulla spalla. Mi volto e mi trovo davanti una valchiria infervorata. Mi ha mollato uno schiaffo, “sganassone” come lo chiamava lei, così forte che la guancia mi ha fatto male per una settimana. Rosso come un pomodoro e con il bianco segno delle sue cinque dita stampate in faccia, mi sono sentito dire: “Uè Tusett! Se te la piantet mia di spiarmi, la prossima volta ti prendo a legnate.” Ecco, in quel preciso momento ho capito che l’avrei amata per tutta la vita.
Evidentemente era una donna forte, ma dal cuore tenero. Dopo avermi tramortito, mi ha accompagnato fino al trenino (e già cara la mia Lucì: il trenino ce stava già allora!) per paura di vedermi svenire per strada. Abbiamo iniziato a frequentarci in pianta stabile due settimane dopo. Nove mesi più tardi eravamo marito e moglie. Così è iniziata la mia vita da marito. Di giorno si lavorava sodo, la sera qualche bicchiere all’osteria e la notte: l’amore.
Erano gli ultimi anni del contrabbando. Per diversi mesi, un paio di volte a settimana, attraversavo anche io il fiume con quelle che chiamavano “bricolle”. Dei sacchi squadrati, pieni di caffè e sigarette. Se non riuscivamo a smistarli subito li nascondevamo alla Cascina. Era difficile arrivare fin quassù con 35 Kg sulle spalle e così abbiamo cercato un altro posto. La soluzione ce l’ha data Don Pietro, il parroco di questo cumulo di sassi e anime. Il campanile è diventato il magazzino: pieno fino a scoppiare. Nessuno avrebbe pensato di cercare nella casa di Dio. Noi ci risparmiavamo la fatica di salire all’altopiano e Don Pietro aveva sempre un rifornimento di sigarette gratuito. Fumava come un turco Don Pietro. Una sorsata di vin santo e una fumata della pace. È morto a 90 anni suonati cadendo dall’altare.
Poi sono arrivate le armi. È arrivata la droga e il contrabbando di denaro. Me ne sono tirato fuori. Non per coraggio o onestà, ma solo per vigliaccheria. Finché si trasportava zucchero e stecche poco male. Era un po’ come giocare a guardie e ladri. Con quello che è venuto dopo, però, se rischiava grosso Lucì! Non avevo nessuna intenzione di farmi aprire un buco in testa per una mancata consegna o di marcire in prigione come esempio per tutti quelli che mai avrebbero preso. Non sono onesto fino in fondo. I vecchi compagni, quelli che hanno continuato, non li ho denunciati. Funzionava così allora e, sono sicuro, anche adesso: omertà e silenzio.
La mia Marì aveva smesso di lavorare dopo il matrimonio. Lei avrebbe continuato alla filanda, ma io non volli. Due i motivi: il desiderio di mettere subito in cantiere il primo di una lunga sfilza di bambini e la gelosia profonda verso i colleghi maschi. Ero un marito geloso Lucì. Mia moglie era bella come il sole e io la trattavo come una regina. La sola idea che potesse notarla qualcun altro mi faceva impazzire. Avevo la tendenza a tenerla in una gabbia dorata, ma lei era felice, almeno all’inizio. Ci amavamo tanto. All’inizio ridevamo insieme e dopo l’amore ci addormentavamo abbracciati. Maria diceva sempre che i miei occhi erano due stelline luccicanti, ma nei suoi io vedevo l’intero universo.
Poi le settimane sono diventate mesi e i mesi anni. Il ventre di Maria rimaneva piatto come una tavola. Di bambini neanche l’ombra. Lei ne soffriva, io pregavo notte e giorno. Volevo un figlio. Lo avrei chiamato Giuseppe. Avrebbe avuto tutto quello che potevo dargli, ma soprattutto un’istruzione. Già me lo vedevo: medico o avvocato. Un pezzo da novanta di cui essere orgogliosi.
Il figlio sospirato non arrivava. Marì era sempre più triste e io passavo sempre più tempo all’osteria. I due bicchieri di vino bianco sono diventati tre. Poi è arrivato il vino rosso e il whisky.
Sono arrivato al punto di trangugiare qualsiasi cosa avesse alcool, anche il dopobarba. Alla fine sono arrivate le botte.
La prima volta non la dimenticherò mai.
Era tardi, molto più tardi del solito. Sono rincasato a notte fonda e Marì era lì in piedi che mi aspettava. I piedi nudi sulle piastrelle fredde e uno sguardo accusatore negli occhi. Non diceva niente, mi guardava e basta. Nel suo sguardo vedevo riflesso tutto il disprezzo per me stesso e tutta la mia misera condizione di derelitto qual ero diventato. C’era un silenzio assordante quella notte. Silenzio rotto dal rumore secco del mio pugno che ha colpito il suo bellissimo viso. È caduta a terra Marì e lì è rimasta fino al mattino dopo, quando l’ho scavalcata per andare a lavorare.
Di giorno mi facevo schifo, come uomo e come marito, di notte picchiavo e più mi facevo schifo più picchiavo. Più volte ho pensato di farla finita e di buttarmi sotto il treno. Pensavo che Maria sarebbe stata più felice, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo.
Era una donna forte la mia Marì e anche stupida. Forte perché mai si è data vinta. Ha continuato a lottare per strapparmi all’alcool, anche quando ho smesso io. Stupida perché mi è rimasta accanto, soffrendo per causa mia. Non voglio giustificarmi Lucia, sono stato un mostro e non sai quante volte ho chiesto perdono al cielo per le mie azioni. Voglio solo farti capire il perché. Maria c’era ed era tutto per me, ma a parte questo ero solo. Mi trovavo in una terra che per i miei natali e il mio accento, mi tollerava disprezzandomi al contempo. Non avevo il conforto di un passato solido né la speranza di un futuro con i figli. Volevo tanto tornare giù al paese e aprire un mio panificio, invece di marcire qui al freddo, lavorando per il padrone. È stato in quei mesi che Marì mi ha proposto di smettere di bere in cambio della cascina. Se ne sarebbe separata, l’avrebbe venduta e saremmo scesi al paese sul mare. Non ce l’ho fatta.
I medici l’hanno salvata per miracolo. Le avevo spezzato un braccio e aveva una commozione cerebrale. Le emorragie interne l’hanno ridotta in fin di vita.
Lucì, se non mi credi leggi i verbali della polizia, leggi i referti del pronto soccorso: trovi tutto nel baule. Mi hanno sbattuto in cella per 2 anni. E quando sono uscito la mia Marì era lì a prendermi: mi aveva aspettato.
Da quella notte non ho mai più toccato una goccia di vino e, come ben sai, mi sono convertito ad un decisamente più salutare tè. Che ridere Lucì… che facce che facevi ogni volta che te ne infilavo in mano una tazza. Soprattutto nel calore estivo. Un’espressione tra lo schifato e l’incredulo ti si dipingeva in volto e io ridevo sempre sotto i baffi.
Mai più ho toccato un bicchiere, Lucia, e ho passato tutta la vita a cercare di farmi perdonare. Che stupido che sono stato. Maria era grande e da tempo mi aveva perdonato. Ero io che non riuscivo a perdonare me stesso. Pian piano ci siamo ritrovati e, seppur indegno, ho riscoperto la bellezza di amare – amare veramente intendo – e di essere amato. Non so cosa ho fatto per meritarmi la mia Marì, so solo che lei avrebbe meritato molto più di quanto le ho potuto dare.
Siamo invecchiati insieme, finché è arrivato l’Alzheimer. Una maledetta benedizione che le ha permesso di dimenticare quanto, anni prima, era capitato. A me ha permesso di credere di non aver mai fatto quello che ho fatto, ma non è giusto. Voglio che tu sappia tutto quanto Lucia, voglio che ti renda conto di come l’apparenza inganna e di come non si conosca mai fino in fondo qualcuno.
Sono stato accanto alla mia Marì fino al suo ultimo respiro. Spesso, al tramonto, le tenevo la mano e lei appoggiava la testa sulla mia spalla. Vagava tra i ricordi e la totale assenza e si aggrappava a me come ad un’ancora. Come hai fatto tu Lucì. Quando ti sei presentata a casa mia all’inizio della primavera non riuscivo a credere ai miei occhi. Le assomigli persino, Lucì. Mi sembrava di avere davanti mia moglie, la mia donna, la mia vita che mi dava una seconda opportunità. Avevo qualcuno per cui essere veramente una guida e un sostegno, senza ombre e brutture. Ho potuto vivere di nuovo.
Quando poi hai avuto l’idea di strappare il Fabbro, Gino, Lucio, Franco e anche Pio – pace all’anima sua e non storcere il naso Lucia, ai morti i peccati vanno perdonati – dal bar non ho più avuto dubbi. È stata Marì ad averti mandato da me. La mia Marì ha voluto far rinascere la cascina e renderla un posto bello e sereno dove i poveri derelitti, come ero e sono io, possano tornare a nuova vita.
Lucia, ti prego, non mettere fine a questo sogno. Io non ci sono più, ma come vedi la mia vita vale ben poco e poco ho fatto di buono. Tu sei agli inizi Lucia, tu puoi fare e dare molto. So che ti senti fragile, so che pensi di aver bisogno di qualcuno che ti accompagni: non è così. Hai dentro una forza straordinaria che per ora non sei ancora riuscita a tirare fuori. Brilli come la luna, ma fino ad adesso sei stata coperta dalle nubi. Fai alzare il vento Lucì, cancella le nuvole del dubbio, della paura e dell’incertezza e inizia a splendere. Rischiara la notte degli altri. Diventa finalmente il faro che sei destinata ad essere. Rendi l’altopiano il posto che hai sempre sognato.
Lucia: so bene che non credi nell’aldilà e meno ancora in una vita dopo la morte. Io però ci credo e questo, per me, fa la differenza. Io e Maria ti staremo vicini. Ci sentirai quando la brezza farà cadere le ultime foglie. Ci vedrai nel battito delle ali delle prime rondini che arrivano all’altopiano. Saremo con te quando sorge il sole e quando va a dormire. Saremo con te insieme a tutti coloro che devono esserci, l’importante è che anche tu sia con te stessa.
Non ti ho mai vista piangere Lucia. Spesso ti ho visto con gli occhi lucidi e dal tuo silenzio partiva un grido d’aiuto. Per quanto possibile ho cercato di coglierlo Lucì. Per quanto possibile ho cercato di esserci e continuerò a farlo. Nella pioggia quando cade, nel sole quando splende, nel ruscello quando scorre. Sarò la voce del temporale – Lucia sta alla larga dai fulmini e la prossima volta fregatene di Nerina, meglio che finisca allo spiedo lei piuttosto che te! – e il silenzio dell’alba.
Nella vita io ho picchiato e ho sbagliato. Tu, però, picchi troppo poco. Tira fuori la grinta Lucì. Mettili tutti in riga. Ne hai l’intelligenza e la capacità. Il coraggio è sopito, ma essere nel giusto lo risveglierà. Sarai il prossimo comandante della legione dell’altopiano. Sarai un ottimo comandante. Io credo in te, inizia a farlo anche tu.
Nel baule troverai tanti ricordi della mia vita. Tante foto della mia Marì. Alcuni scritti dei contrabbandieri, un lasciapassare delle SS (souvenir di guerra) e gli atti del mio processo. Vedrai la perizia del medico e le lettere d’amore che scrivevo alla mia futura moglie.
Lucia. Ho messo a nudo la mia vita davanti a te. Fai ciò che ritieni giusto. Brucia tutto o nascondilo in soffitta. Rendi queste carte un reliquiario su cui piangere o permetti loro di esprimere la violenta forza che contengono. Tutti abbiamo bisogno di un sogno in cui credere. Anche gli ultimi su questa terra hanno bisogno di una speranza.
So che capirai guaglioncella. Sei una testa dura, ma non sei scema. Sei la nipote che non ho mai avuto, ma che avrei tanto desiderato. Come tale ti ho amato nei nostri pochi mesi di vita assieme. Mi ha fatto spesso ridere Lucì e spesso pensare. Mi hai fatto incavolare ed emozionare. Mi hai fatto vivere.
Oro sono, finalmente, morto. Spero di essere con la mia Marì perché anche nell’aldilà da soli è bello, ma insieme lo è molto di più.
So che ti lascio in buone mani.
Tutti i miei soldati sono degni di fiducia, ma non sono le loro mani a cui mi riferisco.
Sono le tue.
Con amore sincero e rispetto profondo.
Nonno Nando
Fabio rincasa che è già notte. Trova Lucia addormentata sul divano. La fronte è fresca e la febbre è sparita. Il baule è aperto sul tavolino e ci sono carte e documenti sparsi ovunque sul morbido tappeto. Nelle mani di Lucia è stretto un plico di fogli scritto con una grafia minuta e ordinata. Sul petto di Lucia è appoggiata una foto. Due occhi profondi e ridenti fissano dritto l’obiettivo della macchina fotografica. La bocca è schiusa in un sorriso sincero e beffardo assieme. Il mento è leggermente sollevato quasi a sfidare il mondo. Alcune rughe sulla fronte mostrano l’età di mezzo di quella bellissima donna. Ha i capelli sciolti Maria.
Il futuro è tutto da scrivere.
E la vita ricomincia.
La vita è un flusso inarrestabile. I lutti non si dimenticano, ma si impara a conviverci. Torna la voglia di fare, tornano rari e poi più frequenti sorrisi e la tristezza lascia posto ai bei ricordi.
Lucia è tornata all’altopiano.
Un morbido tappeto di foglie colorate è steso ai piedi del bosco. Come una coperta proteggerà la terra dal soffio dell’inverno. Il Pessin è quasi finito e l’Osteria aspetta solo la fantomatica licenza. Settimana prossima inizieranno i lavori nel bosco. Ogni pianta è stata selezionata con cura.
Cadranno, sotto i morsi delle motoseghe, tante robinie. Sarà la fine per piante vecchie e malate, per piante invasive e per piante che non hanno speranza di sviluppo. Le boscate di faggio verranno, per la gran parte, risparmiate. La legna servirà per le stufe del paese e i camini delle cascine.
Alcuni bei ceppi sono già stati reclamati dal Pittore, artista di questa parte di mondo. Compone opere di varia foggia e materiale. Alcune belle, altre meno. In ogni caso anche l’ultimo truciolo sarà utilizzato.
Il Panettiere ha chiesto le fascine di sterpaglie. Ottime per far partire il forno della pizza.
Le foglie residue saranno fatte seccare e conservate per preparare il letto alle mucche. Franco ha pattuito l’arrivo dei 100 bovini. A fine aprile saranno portati sull’altopiano.
Fabio ha portato avanti il lavoro di tutti, ma ora è Lucia che deve prendere il suo giusto posto. Avanza lentamente verso la Cascina Marì. Apre la porta e il cuore le si ferma nel petto.
Una coppia di aironi si leva in volo dalla stagno.
Lucia fa un respiro profondo.
I suoi soldati la guardano speranzosi.
Lucia si volta e annuisce.
Sì, è il momento di ricominciare.
“Le statistiche del trenino” continua sabato 21 novembre 2020 con un nuovo capitolo. Non perdetevelo!