Le statistiche del trenino: ottavo capitolo

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LE STATISTICHE DEL TRENINO: OTTAVO CAPITOLO

Ecco l’ottavo capitolo de “Le statistiche del trenino“.
Se vi siete persi il settimo capitolo lo trovate qui.
BluttaBlatta vi augura buona lettura
.

Agosto

Agosto è un bel mese.
Poca gente in giro, meno macchine per le strade, più posti sul trenino, meno mail e telefonate. Peccato per la Grande Capa. Lei in vacanza non va quasi mai. Se c’è da rompere le scatole è attiva 24 ore su 24. Se c’è da dare risposte utili è irreperibile. Probabilmente è una prerogativa delle Grandi Cape.

Lucia si è sempre chiesta se ci si nasce o ci si diventa. Le sembra impossibile che la stragrande maggioranza dei posti di comando sia occupata da emeriti coglioni. Possibile che l’etichetta di prestigio lavorativo si accompagni, perennemente, a un degrado umano? Forse, assieme alla promozione, le future Grandi Cape vengono obbligate ad ingerire una magica, infida pozione che cancella il raziocinio e acuisce la stronzaggine? Lucia si considera vaccinata, ma non è vero. Ogni sgarbo, ogni malessere, ogni inutile difficoltà lascia un segno. Una piccola ferita che, apparentemente, è di lieve entità, ma che sommata alle altre rende la psiche di Lucia una massa sanguinolenta e dolorante.

Ana è, forse, messa peggio. Meno menefreghismo o probabilmente più coraggio. Sopporta meno e vorrebbe ribellarsi, ma non conclude. Vuoi per timore, vuoi per senso di responsabilità, vuoi per sfiducia. Non agisce o reagisce. Temporeggia e, a mente fredda, è l’unica cosa giusta da fare. Sarebbe una donna dalle passioni forti, nella vita come nel lavoro. Grandi progetti, repentine decisioni e sogni di gloria. Amori potenti, carnali passioni e solide mura domestiche. Una donna che fa fatica ad aspettare, insomma. E qui, lavorativamente, è tutto un temporeggiare, un far passare acqua sotto i ponti, un attendere infinito. Un po’ come “Il deserto dei Tartari” di Buzzati e questo non le va giù. Le due si guardano, non parlano, credono – forse a torto – di comprendersi, chinano la testa e ricominciano a lavorare.

Oggi Napo fatica più del solito. La displasia dell’anca si fa sentire nel molosso e lo rende insofferente. Bubu lo irrita come una mosca fastidiosa. Giovane, piccolo e pieno di vita. Lucia ha ricominciato a camminare nel bosco. Sola rispetto ai bipedi, ma in compagnia di due quadrupedi. Zoppica lei e zoppica Napoleone. Solo Bubu, forte della sua gioventù, tira dritto come un Eurocity.
“Oh Napo… forse ti sto chiedendo troppo!”
Lo guarda alternando malinconia ad orgoglio. Sta chiedendo molto a lui e a sé stessa, ma l’idea di un viaggio a piedi è tornata a farsi sentire e così, con la bella stagione, sono iniziati gli allenamenti. Lunghe passeggiate boschive, durante le quali respirare a pieni polmoni.

Il sottobosco brulica di vita. Tutti sono impegnati a rifornirsi di sole e nutrimento in vista dell’autunno e del lungo inverno che li aspetta. Ragnetti di varie specie e dimensioni sgambettano veloci nascondendosi tra corteccia e muschio al passare del trio. Panciute lucertole fanno frusciare le foglie, causando catastrofici terremoti alle formiche di passaggio. Grasse ghiandaie svolazzano su bassi rami di secchi sorbi e iridescenti trotelle guizzano nelle polle del piccolo torrente. Come abbia fatto ad abbandonare per così tanto tempo la natura e i meandri della foresta le è ora inconcepibile. Tra le curve radici di un faggio spuntano i primi funghi commestibili. Le ghiande delle querce stanno giungendo a maturazione e le nocciole sono quasi pronte per lauti e selvatici pasti.

Da qualche settimana Lucia ha incominciato il suo allenamento “intensivo”. Tutte le volte che può, sparisce nel bosco e si trascina dietro i due canidi. Napo sbuffa, Bubu saltella felice. Cammina senza una meta. Non importa il dove arrivare, l’importante è andare, l’importante è non fermarsi mai. Prima o poi avrà abbastanza gambe e abbastanza fiato per affrontare il viaggio. Nel frattempo si gode queste uscite vagabonde. Ad ogni passo, ad ogni sguardo scorge qualcosa di nuovo per cui gioire. Non importa se sono sentieri già battuti mille e poi ancora mille volte. Fa niente se su quella salita è già arrancata ieri e giù per quella discesa è già scivolata settimana scorsa. C’è sempre qualcosa di bello, qualcosa di sano. Dopotutto, non è forse vero che la bellezza è negli occhi di chi guarda?

Agosto è un mese strano. Fa ancora un caldo bestia, è afoso tanto che non si cammina, ma si nuota, eppure ha dei momenti di frescura quasi autunnale.
Agosto sembra un gavettone pronto a scoppiare. Si riempie, fino all’inverosimile, di caldo, ragni, zanzare, umidità finché scoppia in un autunno dai colori sgargianti. Non a caso i temporali più violenti sono in agosto o in settembre. Anche il cielo deve scaricare quanto accumulato nei mesi precedenti.

È sera sull’altopiano e le giornate già si sono accorciate rispetto alle lunghe ore crepuscolari di giugno. Nubi dense e gonfie di grandine si stagliano all’orizzonte. Il cielo ha assunto una colorazione strana, violacea e il vento che si leva all’improvviso non promette nulla di buono. Lucia e Fabio corrono fuori dal Mott e Nando li raggiunge dalla Cascina di Marì. Prima che si scateni la tempesta devono raggruppare le galline superstiti e metterle al sicuro nella stalla. Bisogna tirare le reti antigrandine sull’orto e sistemare i teli impermeabili lungo le parti mancanti dell’Osteria. È necessario chiudere gli scuri delle finestre e sbloccare la chiusa dello stagno.

Se il temporale non trova sfogo è capace di rovinare tutto. L’acqua deve fluire, come i cattivi pensieri, deve scorrere e perdere la propria distruttiva potenza. Nando si affanna a inseguire le pennute. C’è una strana elettricità statica nell’aria e lungo le creste dei monti iniziano ad abbattersi i primi fulmini. Devono fare in fretta. Devono sbrigarsi. Le reti sono srotolate e fissate con i legacci.
Fabio si appresta a mettere al riparo anche Napo e Bubu.
Lucia chiude gli scuri.
Le galline sono al riparo.
Inizia a piovere.

Gocce grosse e pesanti. Chicchi di grandine come acini d’uva. Vento che strappa rami e parole. Nando si è riparato alla Cascina insieme a Fabio. Lucia è rimasta al Mott. Va bene così. Si riuniranno, in tutti i sensi, passata la tempesta. Lucia ha sempre amato queste imponenti manifestazioni della natura. L’attesa dello scatenarsi della fine del mondo. Il piacere estatico derivante dallo scoprirci piccoli di fronte all’immensità. Lo chiamano “l’orrido sublime” in una qualche astrusa e più o meno astratta corrente artistica e letteraria. Lucia non lo chiama, lo vive e basta.

La grandine si schianta al suolo. È già tutto bianco, sembra quasi neve. Napo, grande, grosso e fifone, è nascosto sotto il tavolo. Bubu ammira baldanzosamente il buio illuminato immantinente da lampi e il silenzio rotto da boati assordanti. All’improvviso inizia ad abbaiare, si agita, gratta sul vetro e vuole uscire. Lucia cerca di capire. D’improvviso la vede. Nerina è rimasta fuori.
“Cretina d’una gallina rincitrullita!”

Lucia si getta sulle spalle scoperte ed abbronzate la tovaglia fatta dalla Gattara. Meno male che non è presente. La sua bellissima e ricamata tovaglia usata alla stregua di un mantello! Indignazione maxima! Il vento sibila tra i rami e lo stagno già tracima, portando a valle girini, avannotti e foglie strappate. La porta si apre a fatica. Sembra che la casa voglia proteggere Lucia. Starebbe volentieri al riparo, ma Nerina è là fuori e deve recuperarla. Poi, con sommo piacere, potrà torcerle il collo con le proprie mani a quella disgraziata. Lucia esce, arrancando tra vento e rami volanti. Si avvicina a Nerina che, inconsapevole e beata, seppur zuppa, beccheggia sotto ad una vecchia e possente quercia. La prende in braccio: “Cervello di gallina!” Lei la guarda istupidita. Sembra accorgersi solo ora che piove e che si trovava sola in mezzo all’inferno. All’improvviso Lucia sente gridare. Si volta e vede Nando e Fabio che corrono verso di lei.
Un gran fracasso.
Uno schianto mortale.
Un silenzio irreale.

Lucia si risveglia fradicia e dolorante. È stesa sul pavimento della Cascina e Nerina le zampetta sopra. È avvolta in una tovaglia mezza bruciacchiata e anche i suoi capelli sanno di fumo. Oddio: i suoi capelli! Bruciati fin quasi alla radice!
“Fabio! Fabio dove sei?”
Lucia si alza di scatto. Due mani forti la aiutano ad alzarsi. Nando la fa sedere sul vecchio divano di Marì e le caccia in mano l’immancabile tazza di tè. Fabio è accasciato a terra e la guarda come se vedesse un fantasma. Non ha mai realizzato che potrebbe perderla. Non ha mai creduto possibile che un giorno sarebbe rimasto solo. Lucia è per lui la certezza, l’affidabilità, la presenza senza se e senza ma.

La stava osservando da dietro il vetro. Stava ridendo con Nando in merito a Nerina e ancora di più in merito a quella pazza psicopatica che pur di salvare una stupida gallina rischia di beccarsi una polmonite. Poi lo hanno visto arrivare. Il fulmine ha colpito la grossa quercia, sbalzando Lucia lontano con la tovaglia e i capelli in fiamme, pallida al punto da sembrare morta. Nerina è ancora stretta tra le sue braccia. Rannicchiata e tremante. Fabio e Nando sollevano Lucia e la portano alla Cascina. Fabio si china. Lucia respira ancora. Lui si sente morire. Si accascia a terra e gli passano davanti agli occhi dieci anni di vita comune. Due lustri di risate e litigate, di alti e bassi, di normale e secolare vita di coppia. Centoventi mesi in due e ora, per poco, non si ritrovava con un futuro solitario.

Lucia tossicchia fradicia. Della tovaglia della Gattara si può salvare poco e dei suoi capelli ancora meno. La quercia sta ancora fumando e grazie al cielo che continua a piovere. Lacrime dal cielo hanno spento la forza incendiaria del fulmine. Nando aggiorna Lucia sull’accaduto. Anche lui è spaventato, ma un po’ più presente. Lucia è incredula. Nerina ha proprio una fortuna sfacciata. Le va sempre bene tutto. Ha nove vite come i gatti. Probabilmente è già in debito di vite e al grande gatto celeste ne deve almeno due o tre. Nel suo caso la dea bendata deve vederci benissimo. Questa volta, però, nella sfortuna ha avuto fortuna anche Lucia e se ne rende conto. Ci ha rimesso una tovaglia e la capigliatura. Le apparirà qualche livido nei prossimi giorni, mentre qualche escoriazione già si mostra di un bel rosso vivo. Nonostante tutto è tutta intera, l’altopiano non ha risentito di particolari danni e una quercia fulminata è da mettere in conto. Lucia si guarda le mani e le gambe. Ci sono ancora.
Si alza.
Si avvicina a Fabio.
Lo abbraccia.
La tempesta è finita.

“Per un pollo ci stava rimettendo le penne!”
Fabio è infervorato. Ha passato due notti sotto shock, ma ora è al centro dell’attenzione del bar. Strano: tutto è fuorché un cicerone, ma qui ha catturato l’attenzione del piccolo auditorio paesano. Auditorio che, a dirla tutta, è abbastanza facile. In queste terre non succede mai nulla e ogni evento catalizza l’attenzione in modo esponenziale. Il novello Dante prosegue nel racconto, fulminato e fulmineo. I presenti pendono dalle sue labbra. Lucia, in penombra, sogghigna. Il racconto di Fabio è veritiero, per carità, ma si è fatto prendere un po’ la mano. I fulmini sono diventati tre e l’altopiano è bruciato per metà. Lucia è rimasta svenuta per almeno 10 ore e non si sa se riporterà danni permanenti. Soliti racconti da osteria, insomma. Un po’ come i pescatori. La trota al fiume misura 30 centimetri. All’aperitivo di mezzogiorno sono già diventati 60. Alla sera è una bestia di un metro e mezzo e all’ammazzacaffè è diventata uno squalo. Frottole innocenti, in fondo. Frottole che tutti riconoscono come tali, ma alle quali ci si ostina a credere.

Fabio prosegue nel racconto e lo sguardo degli ascoltatori oscilla tra lui e la protagonista della disgrazia che ormai può considerarsi fortunata ad essere viva. In un angolino Lucio e la Gattara stanno teneramente stretti l’uno all’altra. Non ascoltano Fabio, perché il racconto lo hanno già sentito almeno dieci volte e hanno anche aiutato a ripulire l’altopiano dalla devastazione. Nel loro caso ad essersi abbattuto è un colpo di fulmine. La tempesta e la scampata disgrazia hanno aperto loro gli occhi. Oggi ci siamo, domani forse no, quindi è inutile giocare ai pudici ragazzini innamorati. Convinti dei loro sentimenti si sono dichiarati l’un l’altra in modo semplice e onesto. Nessuna illusione di grande amore romantico e imperituro. Nessun desiderio di fuoco e fiamme. Solo la voglia di provare a stare bene assieme e di non vivere da soli il grigiore della mezza età che avanza.

La novella coppia ha chiesto ed ottenuto di poter iniziare il restauro del Pessin. Il Pessin è, o meglio era, una cascina piccola e discosta. Si trova dall’altra parte dello stagno rispetto alla Cascina Marì ed è perfetta come nido d’amore. La sua genesi, in realtà, è legata alla guerra. È strategicamente collocata sotto il trincerone, una lunga fortificazione che taglia a metà la montagna. Oggigiorno è mezzo diroccato e inghiottito dal bosco. Un po’ come i templi Maya e Aztechi. All’epoca, però, doveva essere imponente. Alla base del trincerone avevano costruito il Pessin.

Una vecchia stazione di posta dove ricevere le consegne, far riposare asini e cavalli e telegrafare gli allarmi di guerra. L’invasione su queste montagne grazie al cielo non c’è stata, o meglio, non un’invasione diretta. La guerra è stata più di logoramento, di fame, di veri o presunti allarmi che costringevano a passare la notte nelle cantine, di razzie e di violenze. Il campo di battaglia ha visto più resistenza che azione e così la vecchia stazione di posta è ancora più o meno integra.

Lucio e la Gattara la faranno rinascere. Rinasceranno loro come individui. Come uomo e come donna. Intanto aspettano pure la licenza alimentare per l’Osteria da Pio Sgrenchio. Quando arriverà, se arriverà, si sono già offerti come gestori. Lucio è bravo a far “baraccate” e il vino lo sa mescere e, purtroppo, anche bere. La Gattara in cucina è un discreto portento. Piatti semplici e possibilmente in dialetto. Non parlarle di soufflé o cake design perché va in crisi. Con brasati, stufati, bolliti, lasagne e polenta, però, ci va a nozze. Le premesse per una cucina fatta con amore e a chilometro zero ci sono tutte. Tra il Pessin e l’Osteria saranno sì e no 200 metri.

Lucia sta cercando di far capire ad Ana cos’è un turbín. L’impresa si rivela più ardua del previsto. È strana la comunicazione. Spesso concetti apparentemente difficili passano rapidi di bocca in bocca e vengono recepiti senza problemi. Altre volte affermazioni banali richiedono lunghe e snervanti spiegazioni. È proprio vero che il dialogo si fa in due: chi parla e chi ascolta. Se non c’è questa premessa, e succede molto più spesso di quanto si pensi, il dialogo diventa un monologo e la magia del passaggio d’informazione crolla. È sufficiente una distrazione, un malumore, una certa fretta o, all’incontrario, una pigra lentezza e il patatrac è bello che servito. Parole dette, ma non giunte.

Oggi, al lavoro, sta succedendo più o meno questo. Lucia parla e cerca di spiegare, ma ad Ana il messaggio non arriva. Se sia colpa di mittente o destinatario non sapremmo dire. Capita a volte, ed è inutile farne un dramma. Non sempre si può essere perfettamente logici nell’esposizione o costantemente attenti nella ricezione. Tra la bocca che parla e l’orecchio che ascolta parecchie parole cadono nel burrone dell’incomprensione. La maggior parte delle volte non è un problema e non vale la pena perderci dietro neppure un pensiero. Raramente, però, ne può conseguire un piccolo o grande dramma. Non è questo il caso. Lucia scrolla le spalle e si rimette al lavoro. Che poi lavori per la gloria o per lo stipendio poco importa. C’è del lavoro da sbrigare, quindi inutile cincischiare. Testa bassa e via.

La mente, intanto, vaga e ripensa ai turbín. L’altopiano è cosparso di questi piccoli o grandi frigoriferi dell’epoca pre-elettricità. Geniali e funzionali costruzioni che sfruttando grottini naturali, avvallamenti nel terreno e sorgenti di acqua fresca garantivano una bassa e costante temperatura tutto l’anno. Il rivestimento in pietra e calce era igienico e funzionale. I turbín non si rompono, non sono da scongelare, non vanno in corto circuito e non hanno bisogno di elettricità. Lucia si rende conto sempre di più dell’interdipendenza dell’uomo dalla tecnologia. Senza elettricità saremmo morti e non è una bella cosa.

La scorsa settimana si è incontrata con la maestra Lisetta. In settembre i suoi pulcini torneranno sui banchi. Un po’ cresciuti, un po’ abbronzati e sempre difficili. I bambini in sé sarebbero anche bravi e malleabili. I genitori sono delle iene e li rovinano. La maestra Lisetta deve arrovellarsi quotidianamente su come mantenere alta l’attenzione e far entrare in quelle piccole zucche un po’ di istruzione. Lo fa cercando sempre progetti ed attività che uniscano il fare all’ascoltare. Solo facendo si impara davvero e la crescita diventa attiva e non passivamente imposta. Con il nuovo anno scolastico affronteranno tanti temi e tanti, inutili, programmi ministeriali e dipartimentali. Lisetta è ben convinta di voler creare un qualcosa che li accompagni durante tutto l’anno e che possa essere stimolo e crescita.

Napo caracolla davanti alle due donne. Bubu le segue a ruota. Lucia e Lisetta stanno facendo l’inventario dei turbín dell’altopiano. Ne hanno contati 17. Alcuni grandi e altri piccoli. Molti semidistrutti e certi perfettamente conservati. I pulcini di Lisetta quest’anno lavoreranno sulle tradizioni, sulla storia della grande guerra, sui materiali e sull’elettricità. I pulcini di Lisetta aiuteranno a restaurare i turbín. Ogni bambino avrà il suo progetto che, si spera, possa coinvolgere tutta la famiglia. Ogni bambino potrà vedere, sperimentare, provare e aiutare a restituire vita e risate all’altopiano. Ogni famiglia potrà cogliere l’occasione, se sarà abbastanza intelligente per farlo, di riunirsi intorno ad una comune idea, di passare insieme del tempo e di imparare a conoscersi di nuovo in un’era dove non si parla, né si comunica più.

Forse le mani sporche di terra e la voglia di lavorare insieme potranno dire quello che le parole non dicono.
Il progetto è deciso.
La Maestra Lisetta è felice.
Quali formaggi e insaccati mettere nei turbín sarà il progetto di un altr’anno.
Un passo per volta.

Otto mesi

È tempo di bilanci per l’anima.
Otto mesi fa si è imbarcata in un’impresa quasi impossibile. Tirar fuori dal buco della depressione una Lucia sconsolata e afflitta. Tirarla fuori con le proprie forze e spesso si è chiesta chi diavolo glielo abbia fatto fare. Oggi è abbastanza soddisfatta. Non ancora completamente soddisfatta e la guarigione è lontana dall’essere completa. La strada, però, è spianata. La sua umana non è più un apatico guscio vuoto, ma è un embrione che ha incominciato a pulsare e scalciare. Affinché questo embrione nasca alla vita, c’è ancora da rimboccarsi le maniche.

L’anima è riuscita a far tornare il sorriso nella vita di Lucia, la rabbia, la voglia di incazzarsi se qualcosa è sbagliato e il piacere di un’appagante fatica. La sua umana ha imparato a riconoscere l’amore. Ha capito il senso del perdono, seppur non sempre lo applichi, e ha iniziato ad impegnarsi in un qualcosa che da solo suo è diventato di molti, ma non per questo ha sminuito la sua intrinseca importanza.

Oggi a fare una statistica è l’anima, mentre Lucia, inconsapevole, continua la sua strada.
Una statistica relativa ai 243 giorni passati insieme.
Ai 243 risvegli che hanno portato ognuno 24 ore di gioie e dolori.
243 giorni di sfide quotidiane
80 giorni di merda
40 giorni del cazzo (perché ogni due giorni di merda, uno del cazzo è in regalo)
15 giorni di assoluta apatia
53 giorni di voglia di fare
10 giorni d’amore
17 giorni di speranza per il futuro
23 giorni di paura di vivere
5 giorni di felicità
L’anima ha ancora a disposizione 122 possibilità per restituire serenità alla sua umana.
La serenità nel passato, nel presente e nel futuro è ora l’unica cosa che manca a Lucia.

“Le statistiche del trenino” continua sabato 7 novembre 2020 con un nuovo capitolo. Non perdetevelo!

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Inchadney, InspectorJ, Kinoton, Inutec, Mc Minnaar, Flathill
Musiche incompetech.com: “Teddy Bear Waltz” di Kevin MacLeod

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli