Ecco il sesto capitolo de “Le statistiche del trenino“.
Se vi siete persi il quinto capitolo lo trovate qui.
BluttaBlatta vi augura buona lettura.
Giugno
La coppia di possibili innamorati è passata dal disinteresse totale ad un lancio di occhiate nascoste. O meglio: il possibile lui della coppia è passato a questo stadio. La lei è ancora inconsapevole e beatamente distratta. Sul foglio da disegno di lui iniziano ad apparire dei ritratti. Un po’ idealizzati, ma abbastanza realistici.
Questa mattina sono solo 85 i viaggiatori in carrozza. Le persone non pervenute si staranno già godendo le ferie, meritate o meno, lontano da stress, si spera, e da impegni quotidiani. La scuola è agli sgoccioli e il genere umano dell’emisfero boreale sciama, più o meno compatto, in quello australe. Meta per vacanze, non per vita vera.
In fondo chissà poi perché è così… cammina Lucia; e pensa. Più o meno come sempre. Tante sono le risposte, ma ancora di più i perché. Perdersi in ragionamenti lateralmente contorti, interrogarsi di fronte al mondo. È bello. È bello non essere atrofizzati, ma spaziare. È bello non avere tutte le risposte alle domande. È una fortuna mantenere intatta la curiosità.
Oggi si prospetta una giornata lavorativamente piatta. Ana è in ferie e l’ufficio è vuoto e noioso. Nelle ultime settimane di cose ne sono successe molte e i racconti si sono susseguiti a raffica.
Ana un po’ ha ascoltato e un po’ no. Ora, in vacanza, cerca di ricostruire la sua fiducia e, a tratti, la sua sbruffonaggine. Gli ultimi mesi sono stati difficili anche per lei. Lavorativamente astiosi e famigliarmente intensi. Un intensità negativa e a tratti dolorosa. Un’intensità e un astio che hanno limato la fiducia in se stessa e il rapporto con gli altri. Però è riuscita a riattivare il suo sogno. La “Casa dei Giochi” è ancora lontana e non è sua. Si è aggregata al progetto di qualcun altro. Ha deciso di investire tempo e risorse nel doposcuola cittadino. Laboratori creativi e svolgimento dei compiti. Non sarà il massimo, ma è un inizio.
Lucia è seduta davanti allo schermo. Di fronte il vuoto. Un vuoto effettivo e un vuoto di pensieri. Oggi la voglia lavorativa se ne sta alla larga e non si fa vedere.
“Voia de fa saltum adoss: a mia tropp fort che me fa ma i oss!”
Lucia ogni tanto parla da sola. Primo segno di pazzia? Improbabile. I primi segni li ha superati da tempo. Ormai è entrata nella fase: follia incurabile. Più che altro le piace sentire la propria voce, intrattenere una relazione a due con il proprio essere. Parlare e rispondersi aiuta ad estraniarsi dai fatti e a rimettere le cose in giusta prospettiva. Permette di farsi forza e di mantenere un perenne confronto. Siamo un solo essere eppure siamo doppi.
Lucia tira fuori dalla borsa la lettera di Pio. Non riesce a separarsene. Scorre, per la milionesima volta, il fitto elenco di nomi. La maggior parte ha accanto una spunta: il denaro è già stato consegnato. Spesso ricevuto con piacere. Sempre in modo sorpreso. Ad ogni persona è stata mostrata la lettera. Alcuni odiavano e odiano tutt’ora Pio, altri si sono persino dimenticati della sua esistenza. Una prova ulteriore che il male può essere peggio per chi lo fa che per chi lo subisce. Una conferma dovuta: ignorare un altro essere umano può provocare più dolore che far a lui del male. Alcune persone sono ancora da raggiungere. Chi è ormai partito, chi si è lasciato alle spalle il paese, chi non è più tornato. Ne parlerà a Nando questa sera. Nando sicuramente saprà come trovare le ultime persone. Solo un nome nella lista stona: Pio.
Pio ha deciso di devolvere anche a se stesso una somma. Probabilmente ha capito di essersi fatto del male da solo. Forse voleva perdonarsi e non ci è mai riuscito. Non è mai stato capace di essere indulgente. Lucia ancora non sa cosa ne farà di quella somma. I legionari vorrebbero spartirsela in una sana bevuta. Nando ha proposto di usarla per tenere in ordine la tomba di Pio. Fabio non si è espresso. Lucia non crede che al suicida importi molto delle sue spoglie mortali e neppure dell’arredamento della sua ultima casa terrena in quel del cimitero. Per quanto riguarda il bere è convinta che gli allegri compari alzino già un po’ troppo il gomito. Mentre il non esprimersi di Fabio è prassi conosciuta. Sente, in qualche modo sconosciuto, che la responsabilità di quella somma è solo sua. Da una parte vorrebbe bruciare quel denaro insieme al ricordo dell’uomo. Non ha chiesto lei che le turbasse la vita e l’esistenza. Dall’altra sente di doverne fare qualcosa. Qualcosa che permetta una riconciliazione di Pio con la sua anima, una riconciliazione di Pio con il mondo. Ci riflette Lucia.
La giornata passa tra colleghi insipidi, lavori inutili e battute sarcastiche. È già ora di smontare e di tornare a casa. Le ore sono lunghe e calde. Troppo calde. Umide e appiccicose, si insinuano nella pelle e nei vestiti e restano attaccate addosso anche nei sogni. L’estate è il tempo dei ragni e delle zanzare. Preda e predatore di un mondo ingiustamente giusto e a suo modo perfettamente etico. Fa caldo anche di notte e il sonno è tormentato. I sogni si susseguono strambi e inquietanti in un turbine di agitato dormiveglia tra lenzuola madide di sudore. L’alba porta la pace e una risposta. La Cascina Marì avrà una sua osteria: l’Osteria da Pio.
“Tu sei matta.”
Franco è allibito. Lucia sbuffa: “Franco: avessi dovuto incazzarmi per tutte le volte che mi avete dato della pazza a quest’ora sareste tutti sottoterra insieme a quella carogna!”
Gli uomini la guardano attenti. Ha ridestato il loro interesse.
“Ma perché, in nome del cielo, proprio un’osteria dedicata a quello sgorbio?”
Il Fabbro aspetta una spiegazione e Lucia, con la pazienza pericolosamente in esaurimento, si lancia a capofitto in un fiume di parole prima che le manchi il coraggio.
La notte le ha regalato due occhiaie fino alle ginocchia e un mal di testa che la metà basta e avanza, ma anche la certezza. L’altopiano dovrà essere un luogo dove stare bene, dove vivere al semplice ritmo della terra e dove riunirsi attorno ad un tavolo per un piatto caldo che faccia bene allo stomaco e allo spirito. Da qui l’idea di un’osteria, una taverna come i tempi che furono. Un luogo dove riscoprire una cucina autentica e lenta. Dove assaporare la genuinità di due abili mani che trasformano gli ingredienti in arte. Arte povera: si intende! I soldi e il nome di Pio serviranno allo scopo. Lui diventerà l’emblema di un posto dove stare bene, di un nido accogliente in cui condividere qualcosa, di una cucina dove l’amore trasforma la terra.
Tutto quello che non ha avuto e che non è stato in vita.
Tutto quello che avrebbe desiderato.
La Cascina dello Sgrenchio è l’ideale per la riconversione. Lucia illustra il progetto. I presenti annuiscono, finalmente concordi e consapevoli. In fondo l’idea di avere un posto dove trangugiare qualcosa all’altopiano li stuzzica. Le pizzette del Panettiere sono sempre apprezzate, ma iniziano ad uscire dalle orecchie. L’Osteria da Pio Sgrenchio, nome votato all’unisono, nascerà. Per una volta Pio ha vinto.
Lucia guarda il mondo scorrere migliaia di metri più in basso. Ana è tornata e ora tocca a lei partire. Agognate vacanze. Come per ogni cosa è più bella l’attesa che non il compimento in sé. È meglio sognare che realizzare. La realizzazione prevede un limite temporale, il sogno no. La trepidazione dell’avvento fa sentire vivi. La paura della partenza paralizza. Lucia vive intensamente le attese. L’ansia, dapprima piacevole, diventa spasmodica con l’avvicinarsi della data X. Ora è qui, scomodamente incastrata in un ignobile e microscopico sedile di un aeromobile che ha visto tempi migliori e ripensa a ieri.
Ieri era tesa come una corda di violino e nervosa tanto da mordere chiunque osasse avvicinarsi. Le succede sempre. Ogni partenza è come morire e prima di morire deve essere sicura che sia tutto pronto e tutto a posto per la sua più o meno prolungata assenza. Delirio d’onnipotenza? Mania del controllo? Forse, più semplicemente, desiderio di uscire di scena con la consapevolezza di non aver lasciato punti di domanda a chi resta. Fabio è accanto a lei. Fisicamente vicino, anche troppo viste le dimensioni millimetriche di questi trespoli in finta pelle appiccicosa, ma umanamente e spiritualmente distante. Ha tanti sorrisi Fabio, ma non per lei. Elargisce tanti abbracci, ma non a lei. Per quest’ultimo punto, a ben vedere, la colpa è anche sua. Desidera, ma respinge. Vorrebbe, ma allontana. Sogna, ma non realizza. Per l’appunto.
Torniamo all’inizio. Sogna spesso Lucia. A occhi aperti e a occhi chiusi. Sogna cose realizzabili e altre meno. Sogna cose che mai tradurrà in realtà e forse è un bene. Una partenza senza ritorno. Una folle notte d’amore. Un lasciarsi andare. Un lancio in paracadute. Un desiderio di intensa e distante ammirazione che mai l’ha vista protagonista. Sogna il tempo che non c’è e la ricchezza che non le darebbe la felicità. Sogna una conoscenza linguistica che la distruggerebbe e un’amicizia impossibile. Basta: l’aereo sta atterrando. Meno male. Ha sempre desiderato volare, ma con le proprie braccia: sogno impossibile di ogni bambino. Volare chiusa in una gabbia di metallo, affidarsi ad altri e non avere sotto controllo nulla non fa per lei. Bella metafora di vita, non c’è che dire.
Quest’anno la vacanza è itinerante. Mezzo di locomozione: nave. Porti toccati: quattro. Giorni in giro: sette. Felicità: sei. O meglio, di partenza sarebbe stata anche più alta la felicità, ma una serie di cause l’hanno drasticamente ridotta. Il non entusiasmo di Fabio, i soliti disguidi lavorativi, la stanchezza che si fa sentire. La nave però è bella, non c’è che dire. Un po’ chic, un po’ tamarra, apparentemente extra lusso, realisticamente non curata nei dettagli.
“E piantala di fare la sega!”
Fabio ha imparato bene a essere ipercritico, non c’è che dire. Peccato che l’ipercriticismo imparato da Lucia si riversi costantemente verso quest’ultima e mai verso il resto del mondo. Parziale e incolpevole catalizzatore per tutto quanto c’è di sbagliato.
“Fa niente” pensa Lucia “Godiamo tutto il possibile e pazienza.”
Ormai un dieci in felicità se lo può scordare. L’importante è gustare quanto ne resta.
Il paesaggio che scorre davanti ai loro occhi è brullo e freddo: magnifico. Casette rosse punteggiano la costa scoscesa. I gabbiani volteggiano attorno alla nave in speranzosa attesa di avanzi gettati fuori bordo. Lucia si immagina al caldo in una di quelle capanne che sembrano uscite da una fiaba. Un fuoco scoppiettante nel camino, un buon libro, la neve fuori dalla finestra e il calore di una famiglia. Famiglia appunto. Ma è sufficiente condividere lo stesso tetto per essere una famiglia? Onde evitare di venir trascinata nuovamente in un vortice di malinconiche e autodistruttive, quanto inutili, riflessioni, Lucia si tuffa nella sua solita, cinica e corroborante lettura quotidiana. Ha conservato questo articolo appositamente per oggi.
Fabio parte alla ricerca di qualcosa da sgranocchiare. Ha scoperto che a bordo preparano delle ciambelle favolose ed è ben deciso ad approfittarne per i prossimi sette giorni. Lucia lo guarda partire e, finalmente in pace, si accinge all’arduo compito.
“Con te partirò” – Croce e delizia di viaggi su navi e per mari
Vituperate, vilipese e snobbate dal folto popolo del “Io una crociera? Neanche morto!”. Amate, santificate ed osannate dalla schiera dei “Per me una vacanza è solo la crociera”. Mai tipologia di viaggio fu più equamente divisa tra strenui difensori e fieri oppositori. Poi, per carità, tutto questo bla bla attorno all’andar per mare ha stufato. È una vacanza come un’altra. Con i suoi pregi e i suoi difetti. Probabilmente sono le persone, come per tutto, a renderla differente. La settantenne impellicciata e che nell’unica sera di gala fa mostra di tutti i suoi gioielli e risulta addobbata come un albero di Natale mal riuscito. Il marito affranto trascinato in barca da una moglie fin troppo entusiasta. I giovani piccioncini in pianta stabile nell’idromassaggio. La borghesuccia di mezza età che “Io senza souvenir a bordo non torno!”. Quello che soffre il mal di mare anche in porto. Quella che il buffet fa schifo, mentre il ristornate è superlativo (peccato che servano le medesime cose rimpiattate in modo diverso). Premesso e non concesso che difficilmente sarete gli unici ospiti sui dodici ponti dell’ultima ammiraglia in navigazione, proviamo a vedere cinque motivi per cui, almeno una volta nella vita, vale la pena provare a mollare gli ormeggi.
Tramonti sul mare a albe nel porto
Dormire: attività fantastica, ma anche grande spreco di tempo. Chi dorme non piglia pesci sulla terra ferma, ma per mare sì. Mentre voi dormite, beatamente cullati dalle onde, o mentre passate la nottata a vomitare in quel loculo che le compagnie di navigazione osano chiamare bagno, il tempo passa e la nave solca. Tramonti stupendi in un posto e albe frenetiche in un altro. Pochi giorni e tante visite. Stasera qui e domattina là. Uno dei pregi di questa tipologia di viaggio è sicuramente l’unire lo spostamento durante i tempi morti, alla massimizzazione del tempo nei porti. Oddio, massimizzazione è dire troppo. Il viaggio di notte è ottimo, la corsa di giorno un po’ meno. Poche ore e la pretesa di vedere tutto il vedibile. Ma qui sta alla logica del singolo: o no?
Per chi lo desidera tutto organizzato
Devi pensare alla valigia e poi stop, basta, finito. È sufficiente avere soldi, tanti, è il gioco è fatto. Su una crociera ti coccolano, massaggiano, nutrono, strizzano, impegnano, guidano. Ti danno da mangiare nei tempi previsti, da bere in quelli desiderati, da riposare quando cala il sole e da divertirti rigorosamente dalle 21.00 in poi per il primo turno della cena (dalle 19.00 per il secondo). Nessuna preoccupazione di “fai da te” : le escursioni ti portano ovunque. Salti le file, salti il traffico, salti il divertimento. L’unico problema è condividere con il resto della mandria gite, pranzi, fermate e puntatine alla toilette. Ne va della spontaneità, non certo del rigore.
Arrivare in posti difficilmente raggiungibili
Poco tempo e poche ore, ma molte cose da vedere. Una crociera ti porta ovunque o quasi. Basta una via d’acqua, un porto turistico e un passaporto valido e il gioco è fatto. Che sia l’estremo oriente, il medio oriente, il vicino oriente o il porticciolo sotto casa. Che sia la conquista del West, il grande nord, gli ammalianti Caraibi o il Capo di Buona Speranza è tutto un programma. Esistono vacanze lampo e viaggi immensamente lunghi. Esiste il giro del mondo e il week end in fuga. Unica avvertenza: “il mal di terra”. Sembrerà un paradosso, ma più si sta a bordo di una nave più ci si sente disorientati una volta scesi. Una sorta di mal di mare all’incontrario. Gli amanti delle onde dicono che è la “crocerite” che sta attaccando. Noi diciamo che è uno sfasamento della coclea. Non ci credete? Provare per credere.
Sentirsi un po’ VIP e un po’ esploratori
L’era delle grandi esplorazioni è terminata. L’epoca in cui bastava uscire di casa per scoprire una nuova terra è finita. Non per niente ora ci si indirizza verso Marte. L’alba d’oro di Magellano, Colombo, Vespucci e Caboto (scopritore del Canada – giusto per la cronaca) è morta e sepolta. Essere però a bordo di un moderno e metallico vascello risveglia sempre la sete di avventura e conoscenza. Se poi possiamo cenare con una schiera di camerieri ai nostri ordini, con un equipaggio di chef pronti a deliziarci, vestiti con l’ultima griffe e agghindati con tanto di quell’oro da abbagliare tutti i commensali, ancora meglio. Moderni e modaioli esploratori che cercano l’ultima avventura oltre le colonne d’Ercole. Ulisse si rivolterebbe nella tomba.
Una vacanza claustrofobicamente intima
La nave è enorme. Le attività da fare miliardi. Il tempo per approfittarne sempre troppo poco. Per quanto andare da prua a poppa possa richiedere giorni interi, partecipare alle attività sia più sfiancante della maratona di New York, rincorrere le escursioni vi faccia venire due cosce sode che neanche Mennea, la nave è comunque uno spazio finito. Se saprete ben organizzarvi potrete finalmente ricavarvi un po’ di pace ed intimità con il vostro stressatissimo lui, la vostra isterica lei, i vostri adorabili e guastafeste nipotini, i vostri figli adolescenti simpatici come caimani incazzati. Far fruttare al meglio questo tempo che vi è stato dato è una scelta e anche una fortuna. Noi possiamo solo augurarvi: buona navigazione! (Gli Argonauti)
Lucia termina la lettura. Fabio è tornato con le ganasce piene di donuts e grufola come un cinghiale nel periodo dei porcini. Facile parlare astrattamente di intimità e benessere. Facile pontificare sull’unità famigliare e su quanto sia bello passare del tempo insieme. A casa ha lasciato un Prizziello agguerritissimo a seguire i lavori. Al lavoro c’è Ana che, con più o meno disperazione, farà andare avanti egregiamente la baracca. I sospesi, che ci saranno – eccome se ci saranno – li affronterà al ritorno. E allora perché non riesce a prendersi una pausa dalla vita? Perché non è possibile staccare il cervello, spegnerlo, mandarlo in corto circuito? Vivere seguendo i sensi e gli istinti elementari. Se Fabio potesse capire, potesse sentire ciò che pensa, sarebbe di grande utilità. Uomini: un neurone morto e l’altro in agonia. Lucia sorride, questa frase l’ha già detta e non è il caso di ripetersi.
Fabio la guarda e risponde al sorriso. Chissà cosa avrà capito. Ma che importa poi? L’importante è iniziare questa vacanza senza musi lunghi, che poi il sorriso sia nato da un equivoco pace e amen. Al ritorno la Cascina Marì reclamerà tutta la sua attenzione. Ora, quindi, è giusto dedicarla a Fabio. Ne sarà contraccambiata? Chi lo sa: tentar non nuoce.
Domani arriveranno al primo scalo e al primo porto. Una rocca sul mare, una cittadina collinare piccola e medioevale. Una perla da scoprire. Ma oggi è oggi e Lucia è decisa a vivere al meglio.
“Fabio?”
“Mhmhmhm… dimmi.” Fabio mastica e risponde.
“Mi accompagni a prendere una ciambella?”
La città è bella, non c’è che dire. Mura medioevali circondano un nucleo di case in pietra e calce. L’aria è intrisa del profumo delle mandorle speziate e tostate che belle ragazze vendono ai bordi delle strade. Graziose bottegucce e invitanti ristorantini si affacciano sulla piazza principale. L’aria è tiepida e mite. Insolita, dopo il freddo del giorno prima. Lucia osserva gli alti camini e i portoncini decorati. Inferriate artistiche proteggono le finestre dei piani bassi e graziosi piccoli balconcini si protendono sopra le teste dei passanti. I camminamenti di ronda sono stati in parte riconvertiti in caffè modaioli e ristoranti chic. Una nuova vita o uno snaturare il passato? Lucia è combattuta. Le piace molto l’atmosfera turistica e linda che si respira nei vicoli acciottolati, tuttavia non l’apprezza. Le sembra tutto ricostruito a tavolino. Una sorta di Disneyland storica.
Non è forse vero che questo succede un po’ a tutte le località turistiche? La guida sproloquia e rovina il silenzio ovattato della bianca cattedrale. Lucia e Fabio si guardano e annuiscono. Basta guida, basta visita schematizzata e imposta. Escono dalla porticina laterale e, finalmente liberi per lo spazio di qualche ora, si perdono nel dedalo di viuzze. Bello girovagare e perdersi. Sarebbe bello anche ritrovarsi. Lo stomaco inizia, ingiustamente, a brontolare e i due si infilano in un taverna dagli interni bui e dalla finta ambientazione quattrocentesca. I piatti sono stravaganti e le salsicce d’orso fanno felice Fabio. Lucia opta per la carne secca di alce. Particolare, ma gustosa.
Un occhio all’orologio e uno al cielo. La nave parte e non aspetta. Ulteriore motivo d’ansia per una Lucia perennemente vigile e pianificatrice. Fabio la sprona alla leggerezza, lei si sente l’unico baluardo di realismo prima che la vita naufraghi.
Frotte di turisti si riversano sul candido agglomerato di case. I commercianti sono felici. Lucia e Fabio risalgono la corrente, all’incontrario come i salmoni, e arrancano verso l’imponente cittadina galleggiante che, placida, li aspetta in porto sotto ad un cielo azzurro brillante e davanti ad un mare che in lontananza si fonde nel blu. Come giustamente preventivato da Fabio, e sottovalutato da Lucia, c’è ancora molto tempo prima della partenza. Si sdraiano a poppa. Comode poltrone aspettano culi sodi e culi flaccidi, corpi grassi e corpi magri, uomini, donne e bambini. È sufficiente aver pagato e dischiudono per voi i loro cuscini come boccioli di un fiore ai primi raggi di sole.
Lei non ama i souvenir. Quelle patacche inutili e vergognosamente costose che puntualmente finiscono in solaio o in cantina. Nella migliore delle ipotesi turbano, con la loro accusatoria presenza, la quiete del vostro salotto. Rigorosamente coperti da due dita di polvere. Molte foto, tanti ricordi e alcune cartoline scelte con cura. Questi sono i suoi souvenir. È proprio strano il presente: semplicemente non esiste. Alla mente di Lucia riaffiora il primo verso di una poesia di Szymborska: “Quando pronuncio la parola futuro, la prima sillaba è già nel passato”. È vero. È l’attimo che non si può cogliere e scivola tra le dita. Il momento ultimo della fissità del tempo. Sarà per questo che l’uomo ama tanto la fotografia? Perché è l’unico artificio che permette di catturare la sfuggevole preda e immortalarla per l’eternità? Lucia si interroga, ma non ha risposte. Fatto sta che vive sempre l’attesa e sempre il ricordo. Intensamente, ferocemente, felicemente o con disperazione, ma lo vive. Il presente per lei non esiste.
“Nandooooo! Nando!! Non sento niente!”
Lucia strepita. Fino a due minuti prima si stava godendo una sostanziosa colazione in attesa di sbarcare nella metropoli che si staglia ai loro piedi otto ponti più in basso. Poi il telefono ha iniziato a squillare furiosamente e la pace è finita. Ora Lucia cerca di decifrare una conversazione a 2’500 km di distanza. Se in più ci mettiamo Napo e BuBu che abbaiano, un baritono e un tenore in sincrono perfetto, il Fabbro che strepita nelle retrovie, la signora del tavolino accanto che sgrida la numerosa prole per lo scorretto uso del cucchiaino da tè, l’altoparlante che continua a reclamizzare la “meravigliosa, splendida, sensazionale, imperdibile vendita serale al duty free”, il risultato è non capirci una mazza.
“Nando: questa conversazione incomprensibile e satellitare mi sta costando l’udito e una fortuna. Cosa c’è?”
Lucia è già tesa, è già sicura che qualcosa non vada e che dovrà trovare una soluzione.
“Niente Lucì! Qui va tutto benissimo. L’Osteria procede e la Gattara è già dietro a confezionare le tovaglie. Il Mott è quasi terminato e io mi sono trasferito alla Cascina Marì!”
“Bene, ottimo. Bravi tutti e saluta i ragazzi. Ma se è tutto ok perché diavolo mi stai chiamando?”
Lucia è esasperata.
“Lucì! Volevo solo dirti che ce manchi assai! E che te vojo bene! Torna presto!”
Nando attacca senza neanche darle il tempo di salutare. Schiaccia il tasto di fine conversazione e sorride sornione. Lui lo sa cosa ci vuole a quella guagliuncella. Qualcuno che le ricordi la sua importanza. Non per quello che fa o non fa, ma per quello che è. Per fortuna che il destino ha mandato lui! Il sorriso ebete e compiaciuto continua a stargli stampato in faccia e risulta poco credibile rivolgendosi a Franco in cagnesco.
“Eddaie Franco. Quei tavoli li voglio pronti entra sera. Capiscti?”
Lucia è sbalordita e Fabio la guarda interrogativo. Con un gesto della mano scaccia una mosca immaginaria, afferra lo zaino e si alza. Non è ancora pronta a condividere quel piccolo calore che sente dentro. Una gioia inattesa e tanto più importante.
Grande Nando.
Marì è stata una donna fortunata.
La metropoli è enorme e caotica. Una distesa infinita di case, edifici e palazzoni. Il progresso qui è arrivato troppo tardi eppure troppo presto. Il disordine è la regola. La pulizia quasi maniacale è una nota piacevole, ma stonata. Altra guida ed altro bla bla. La sensazione, però, è che il bla bla che cercano di istillare nei turisti sia una rivisitazione della realtà. Quello che scorre davanti agli occhi di Fabio non collima con quello che sente dire. Era scettico su questo viaggio, inutile negarlo. Lo è tuttora, ma perlomeno molte cose sono interessanti e le ciambelle marittime sono la fine del mondo. Fabio coglie e vive il presente. Forse perché non sa scendere a patti con il passato e ha paura del futuro. Si completano i due. Ma non lo sanno e soprattutto non lo sanno esprimere.
La città scorre lenta e trafficata. Milioni di persone si muovono apparentemente senza senso come in un enorme formicaio. In realtà nulla è lasciato al caso, né tra le persone né tra le formiche. La differenza è che l’organizzazione degli insetti non lascia spazio al male per il male e alla crudeltà per la crudeltà. Arrivano al Palazzo. Un’imponente ricostruzione artistica di quanto la guerra ha rovinato. Una sorta di Cascina Marì in grande stile. Una pretesa di esistenza, forse assurda e forse inutile, ma sicuramente affascinante. Le fontane si innalzano verso il cielo. Geyser artificiali che creano finti arcobaleni. L’arte meravigliosamente espressa in quadri, statue e dipinti. I ricchi pavimenti intarsiati mostrano la bravura anche dell’ultimo degli artigiani. Le forme perfette delle siepi rispecchiano il rigore di una civiltà inquadrata e grandiosamente comune. Una servitù della gleba fino all’altro ieri.
In questa profusione d’oro e marmo Lucia si perde ad osservare un fiore. Un piccolo fiore blu di cui ignora il nome. Cresce, seminascosto, accanto ad una perfetta e rettangolare siepe. Sfuggito alla ranza del giardiniere reclama, timidamente, un raggio di sole tutto per lui. È forse questo il presente? Interrompere il fluire del tempo per osservare un fiore? La calca spinge e Lucia viene trascinata via verso il prossimo palazzo. Una corsa ad ostacoli senza un senso e senza un perché.
“Le statistiche del trenino” continua sabato 24 ottobre 2020 con un nuovo capitolo. Non perdetevelo!