Le statistiche del trenino: terzo capitolo

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Le statistiche del trenino: terzo capitolo

Ecco il terzo capitolo de “Le statistiche del trenino“.
Se vi siete persi il secondo capitolo lo trovate qui.
BluttaBlatta vi augura buona lettura.

Marzo

Lucia si stiracchia sotto il piumone.
D’inverno le piace scomparire in quel bozzolo caldo. Sbircia fuori dalla finestra. Un occhio aperto e l’altro ancora chiuso, ancora forzatamente e caparbiamente ancorato al mondo dei sogni. Sarebbe bello dormire con metà cervello per volta come i delfini. Un modo per essere sempre vigili e nel contempo fuggire dalla realtà.

Si alza Lucia. Il paese è ormai sveglio da un paio d’ore. Questa mattina ha fatto tardi.
Tardi per cosa? Non è corretto. Diciamo che se l’è presa comoda. Il mondo può aspettare una volta tanto.

Il paese. Il suo paese. Amato e odiato al contempo. Le riaffiorano alla memoria dei versi:

Sfumano, dal vivo sole braccate,
le ultime gocce di notte e di sonno.
Il borgo le gelosie dischiude
coglie di lago e di monti il respiro;

e suoni di vita prendono il volo,
sia gli allegri saluti e discorsi,
che dagli aperti usci scene di casa,
dal bosco le lievi note di un canto.

Il giorno si snoda nel tempo di ali;
profumi impregnano l’aria di festa
e vive di canti e giochi il paese.

Poi il sole, spento, nel mare di notte cala
e così il sonno sale dal lago per
abbracciare quel Nido di Tetti.


“Nido di Tetti” l’aveva chiamato. Era un sonetto composto ai tempi del liceo: preistoria ormai. Dalla maturità sono passati 12 anni. Quasi una vita… Lucia non permette al filo dei pensieri di trascinarla nei ricordi. Oggi vuole vivere il presente.

La primavera è alle porte e le poche chiazze di neve residua non fanno più paura. Napo abbaia. Lucia si veste veloce e via: obbligatoria e rituale passeggiata di prassi. Napoleone ha una predilezione per le altrui pisciate. In special modo ama l’afrore delle femmine canine e una passeggiata di dieci minuti si trascina fino ad un’ora tra un’annusatina qui e un respiro a pieni polmoni lì.

Lucia è infastidita. Da due settimane lavora meno, ma ci vorrà tempo per riappropriarsi del proprio tempo. Per imparare a gestire una libertà sconosciuta e a colmare il vuoto lasciato da un finto pieno. Oggi si sente riflessiva. Ne approfitta per concedersi il lusso di osservare. A quest’ora il paese è popolato da mamme casalinghe, nonne giovanili e disoccupati cronici. Poi c’è il bar. Quattro case e un bar fatiscente. Punto di ritrovo per una comunità slegata e senza radici. Fauna interessante: l’urlatore cronico, l’ubriaco di prima mattina, il fancazzista attempato, l’eterno giovane dentro (ma con più rughe che capelli) e l’oca giuliva di turno. Se son persone o personaggi Lucia non l’ha mai capito davvero.

“Due ore! Due ore sotto la pioggia sono stata per colpa di quel sacco di pulci!”
L’ultima avventura canina di Lucia è ricominciare ad andare nel bosco. Un tempo lo faceva spesso. Rigorosamente da sola e possibilmente all’alba. Poi ha smesso. Troppe brutture, troppa insicurezza, troppa gentaglia in giro. Ma ora c’è Napo e 65 Kg di cane, comprensivi di mascelle affilate, offrono una certa sicurezza. “Peccato che Napo soffra di vertigini!” Ana sorride e, come i delfini, con un orecchio ascolta e con l’altro no.

Lucia si è trovata su uno stretto sentiero e Napo si è impiantato. Un chiodo nel muro, un tir con una gomma a terra, una sequoia centenaria. Fermo, immobile e senza alcuna minima intenzione di avanzare. Si fa sera e inizia a piovere. Lucia alterna disperazione e urla a parole dolci e risate isteriche. Napo fa il finto tonto. Lui non ci pensa proprio. Se lei vuole ammazzarsi liberissima, ma lui – nella sua canina intelligenza – alla vita ci tiene ancora.

Ora è buio pesto e a Lucia viene un’idea. Torna indietro sui suoi passi indovinando tenton tentoni lo stretto sentiero, fa qualche giro a vuoto e poi ritenta. I cani vedono male e Napo vede peggio. È buio pesto e non può accorgersi di essere sull’orlo di un burrone. I due passano, superano il pezzo critico e si avviano a passo spedito verso casa. Lucia sollevata e felice di aver ingannato bonariamente Napoleone. Il cane sollevato e profondamente convinto che Lucia poteva darsi una mossa a trovare prima quel comodo sentiero alternativo e senza burroni. Non che abbia visto granché, ma la realtà ha sempre due facce.

Lucia termina il racconto e Ana inizia ad aggiornarla sul lavoro. Trovare un nuovo equilibrio lavorativo richiede un po’ di impegno, ma possono farcela. Sono sopravvissute fino ad ora e non sarà questo a fermarle. Anche Ana ora lavora meno. Si è decisa a prendere un giorno libero a settimana per stare più vicino alla famiglia. In realtà non è la famiglia ad averne bisogno, ma lei. Ha un cuore grande Ana, ma è convinta di non saperlo usare e forse è vero. Si preoccupa e occupa di tutti, ma in modo quasi meccanico, quasi professionale. Come un medico cura i suoi pazienti e dà loro tutto ciò che può, così lei fa con i suoi amici e famigliari.

Ana riflette. Famigliari sì, ne ha. Una doverosa e genealogica categorizzazione di parentela a cui non può e forse non vuole sfuggire. Amici non ne ha e non ne vuole. Chiama tutti amici, in realtà. Si disfa anche per loro, ma non ne viene toccata. Non permette alle emozioni e ai sentimenti di arrivare a colpirla. A tratti le pesa, solitamente ne è felice. Troppe sollecitazioni, troppe persone che la ritengono una spalla su cui piangere e un supporto nelle difficoltà. Solo con distaccata freddezza Ana può farvi fronte.

Lucia non si vanta di conoscerla a fondo, anzi è convinta di conoscerne solo la superficie. Solo quello che lei le permette di vedere. Che poi, a ben pensarci, le due si somigliano abbastanza. Entrambe ciniche e entrambe bisognose di rinascita. Lucia si tuffa nel lavoro. Oggi, a riempire la giornata, ci penserà lo studio del nuovo packaging degli ultimi biscotti “Zero grassi-Mille fibre” ideati dalla Grande Capa.

Lucia sorride… altro che insipidi biscotti fatti di nulla, ha in mente una nuova ricetta e domani proverà a realizzarla. Anzi, la realizzerà: ne è sicura. Fabio sembra gradire i suoi esperimenti culinari e Napo li fa sparire in un boccone gorgogliando soddisfatto. Lui però non fa testo. Gorgoglia soddisfatto anche quando ingurgita pezzi di vecchie ciabatte – per la disperazione di Fabio – o parti di nuovi asciugamani – per l’isterismo di Lucia. Trovasse una ricetta per rendere meno grigia la giornata a sé e agli altri sarebbe contenta. Lucia si chiede in quanti sarebbero disposti a provarla. Non ha una risposta. Lo chiederà ad Ana un giorno. Ma deve essere un giorno in cui ha la forza di sentire la verità. Per intanto tenterà con Jeanette.

La telepatia. Lucia ogni tanto la troverebbe molto utile. Generalmente è ben contenta che i suoi pensieri e le sue emozioni stiano racchiuse all’interno di una scatola cranica spessa e sufficientemente robusta da aver causato una crepa nel muro nel corso di un fortuito e spiacevole tête-à-tête.
Anni: 5 e mezzo.
Luogo: camera da letto.
Movente: capriole.
Descrizione dei fatti: gioco irruento e compulsivo.
Epilogo: testata contro il muro.
Prognosi: umana piangente e muro crepato.
Da allora soprannominarla testa dura è stato un divertente obbligo.

Tanti sono i pensieri che guizzano tra i neuroni di Lucia. La maggior parte di essi è bene che stia nascosta. Scabrosi spesso, malati qualche volta, privati sempre. Pensieri omicidi e suicidi, con una netta prevalenza dei prima (Lucia è leone mica per niente), pensieri innocenti e quasi ingenui con frequenza giornaliera, stupore e meraviglia per piccole cose che per rimanere magiche devono restare sconosciute, pensieri di un umorismo raro ed estraneo ai più, pensieri a tratti pornografici come chiunque abbia il coraggio di ammetterlo senza false remore, pensieri belli e pensieri brutti, pensieri giusti e pensieri colpevoli. Finché restano chiusi dietro la calotta cranica non fanno male a nessuno, se non al pensatore incriminato.

La telepatia. Nonostante tutto a volte servirebbe. Una telepatia selettiva, decisionale e ben calibrata. Lucia deve ancora imparare, ma spesso basta uno sguardo per unificare un comune pensiero. Telepatia per spiegare a Fabio desideri e aspirazioni, senza rovinarli con le parole. Telepatia per trasmettere paure e richieste d’aiuto senza farsi capire. Telepatia per mettere a tacere prima che sia troppo tardi chi, potenzialmente, si espone ad un rischio non considerato. Telepatia per non essere soli. Telepatia per far sentire le cose che si ha paura a dire. Telepatia per quando, semplicemente, non esistono le parole.

Un tetto parzialmente crollato, una mangiatoia miracolosamente integra e un turbín (antichi affranti naturali o costruiti dall’uomo, con temperatura costante tutto l’anno, che venivano utilizzati come antenati dei frigoriferi) ricoperto di muschio.
C’è un posto sopra il paese che ha la magia del tempo passato, la tristezza della fine inesorabile e il romanticismo dei ricordi del contrabbando. Un piccolo altopiano incastonato tra due spartiacque punteggiati di trincee. Un luogo di vita vissuta e di storia dimenticata.

Cento mucche ospitava quella terra, trecento galline, qualche maiale per le famiglie abbastanza ricche e schiere di bambini e adulti a difendersi da due guerre mondiali e da battaglie giornaliere. Lucia ci torna spesso. È un rifugio che ama, anche se ogni visita significa un nuovo tetto che non c’è più e un muro scomparso. Ora con Napo le visite si sono fatte più frequenti. È marzo e i primi crocchi punteggiano il limitare del bosco. I faggi e le betulle iniziano a gemmare. Tra un paio di mesi avremo un tappeto di verdi foglie steso tra il suolo e il cielo. Il cane scodinzola felice, l’aria fresca è carica di odori del sottobosco. La terra profuma di vita e di pioggia. Dal bosco le lievi note di un canto accompagnano il cammino.

I profumi di libertà si mescolano con l’aroma di vaniglia rimasto sulle mani di Lucia e sul muso di Napoleone. La Red Velvet Cake non è venuta per niente male, c’è un po’ da lavorare sulla glassa, ma tutto sommato come primo tentativo è buono. Lucia sta imparando l’indulgenza verso se stessa. I passi avanzano lenti. Qualche riccio, ormai senza castagne, fa capolino sotto lo strato di foglie autunnali che ancora punteggiano la primavera. Napo li schiva guardingo. Molosso con la pelle tenera. Lucia si appoggia al suo albero. Un vecchio faggio dalla base distorta. Una comoda poltrona in prima fila sullo spettacolo della montagna.

Dice una leggenda che quando, di prima mattina, attorno ad un faggio si trova un cerchio di funghetti, significa che la sera prima le fate del bosco hanno fatto una festa e i camerieri si sono dimenticati di portare via gli sgabelli. D’autunno Lucia spera sempre di trovare un cerchio di funghetti, di poter credere che, al contrario dell’uomo, esistano delle creature che fanno del bosco la loro casa, senza paura e senza pretese. Dal suo belvedere Lucia osserva Napoleone, libero, almeno per qualche momento, di scoprire il mondo con il suo naso. Osserva i ruderi di cascine abbandonate da decenni, Osserva il bosco dove un tempo c’era pascolo.

Chiude gli occhi Lucia. Sente le risate dei bambini, i richiami di mamme giovani, ma anziane per il troppo lavoro, i canti di nonne. Ogni strofa un ago di maglia. A Natale, a Pasqua e al compleanno c’era sempre un paio di calze nuove. Calze perfette o calze sformate, a seconda dell’età e dell’esperienza della comare. Al pascolo si saliva d’estate. D’inverno il paese ospitava vacche e umani, maiali e galline. Uno sull’altro, in attesa di ripercorrere la transumanza verso il cielo. Una vita più facile? No. Più semplice? Lucia è convinta di sì. Un semplice sano, un semplice che ti spacca le ossa e ti fa dormire come un sasso. Un semplice che nasce dalla terra e alla terra torna.

Lucia apre gli occhi. Non può e non vuole continuare a guardare quel mondo andare in rovina. Gli anni passano e non tornano. Ma le vestigia architettoniche ci sono ancora. Lucia si rifiuta di farle scomparire sotto una vegetazione che non perdona. Natura madre e matrigna. Il giorno dopo Lucia lavora, poi arriva il fine settimana e poi di nuovo il lunedì. Una macina che gira e tritura la giovinezza, i giorni e il tempo dell’umana permanenza sul pianeta terra. Il prossimo lunedì, però, Lucia ha un impegno. Lucia andrà all’Ufficio Proprietari Terrieri e Beni Culturali. Deve scoprire a chi appartengono quei pezzi di terra senza nome, quelle particelle catastali di scarso valore per il mondo. Se non può vivere lei, può far vivere la realtà. Lucia manda una mail. Lucia ha un appuntamento con il futuro.

15 persone apparentemente serene, 43 ancora addormentate, 25 evidentemente alterate, 1 incazzata nera, 18 annoiate, 3 felici, 36 assorte nei loro pensieri, 2 in vena di chiacchiere, 21 senza personalità. In totale 164 forme di vita che prendono posto questa mattina sui sedili consunti del treno dei desideri. Lucia è perplessa e ripensa all’incontro del giorno prima. Ufficio spoglio, ma inspiegabilmente disordinato. Una lunga fila davanti e un’attesa che si prolunga ben oltre l’orario della puntualità. Per ingannare il tempo Lucia legge.

“Santa Pazienza prega per noi” Piccoli trucchi per mantenere un perfetto british aplomb in situazioni critiche
Scomodare l’intero olimpo celeste. Tirar giù i santi dal cielo. Spremere al massimo la vostra ugola d’oro che neanche Maria Callas con i bicchieri di cristallo. Desiderare ferocemente di piazzare cinque dita in faccia al collega saputello, al figlio irriverente, al capo insopportabile e al micio che ha deciso di estirpare la vostra orchidea più bella. Sfatiamo un mito: perdere la pazienza fa bene. Fa bene ogni tanto incazzarsi e farsi vedere incazzati. La Santa Pazienza a volte può starsene per conto suo a giocare a ruba-mazzetto con la Santa Polenta (cucina per noi), a briscola con San Crispino pane e vino o a pettinare le giraffe con Santa Gertrude patrona dei gatti. Perdere la pazienza dà una botta di vita. Fa girare l’adrenalina, fa battere el corazon espinado e vi libera dalle tossine attraverso la sudorazione. Tutte cose positive? Mica troppo. Infarti dietro l’angolo, litri di deodorante, tremarella da tarantolati. E allora tra un Padre Nostro e un’Ave Maria ecco a voi cinque trucchi per comportarvi con immancabile sobrietà anche quando vi sentite Jack Lo Squartatore.


Allontanarsi dal luogo del probabile delitto

Lo volete ammazzare. Desiderate con crudele piacere stringere le vostre dita ossute attorno a quel collo da vecchia gallina rachitica. Sublimate il momento in cui esalerà il suo ultimo respiro. Ebbene, non potete. O meglio: potreste anche, ma una volta ritrovata la serenità mentale potreste pentirvi del misfatto. Chiunque sia il probabile assassinato, non vale la pena finire dietro le sbarre e farsi portare una lima nella torta di compleanno a causa del suo omicidio. Quando siete colti dal raptus allontanatevi. Se potete, girate i tacchi e levatevi di torno. Date il tempo all’adrenalina di defluire e ritornerete perfettamente padroni di voi. Una volta riacquistata la calma magari avrete ancora voglia di ammazzare, ma perlomeno potrete pianificare con distacco il vostro crimine perfetto. Le chance di non venir beccati aumenteranno esponenzialmente.

Chiudete gli occhi
Se qualcosa o qualcuno vi ha fatto arrabbiare, con ogni probabilità, è una brutta cosa. Fosse anche la strafiga intergalattica di turno o il belloccio tutto muscoli e niente cervello l’oggetto del vostro odioso ardore, in quel momento sarà per voi la cosa più ripugnante sulla faccia della terra. Bene. Ottima cosa. Se è brutto tanto vale non guardarlo. Escludete l’oggetto di cotanto risentimento dal vostro campo visivo. Focalizzatevi su di un’immagine piacevole e interrompete ogni comunicazione con il mondo esterno. Sconnettetevi anche solo per 10 secondi. Al vostro ritorno vi sembrerà tutto più leggero e insignificante. Sapete, ormai, che dipende da voi quanto e come farvi colpire dal nervoso. La provocazione può essere lanciata, ma la decisione se raccoglierla oppure no è solo vostra.


Respirare
Estremamente banale e scontato. Viviamo per respirare o respiriamo per vivere, ma se la maggioranza delle discipline di controllo corporeo e delle religioni meditative fanno del respiro il loro punto focale un motivo ci sarà. Che milioni di persone siano tutte deficienti è poco probabile, possibile, ma poco probabile. Respirate, fate dei respiri profondi. L’ossigeno fluidifica il sangue e vivifica le cellule. Impedisce all’adrenalina di stimolare i recettori e…


“Avanti il prossimo! Liesi!?”
Lucia viene interrotta bruscamente. La lettura dovrà attendere. Peccato, era interessante. Con 46 minuti e 37 secondi di ritardo Lucia si accomoda sulla poltroncina in finta pelle dell’Ufficio Proprietari Terrieri e Beni Culturali. L’impiegata la guarda annoiata. Pensa al figlio che non ha voglia di studiare, al marito fedifrago e al congelamento degli aumenti di stipendio.

“Signora, senza mappe catastali è un po’ difficile, ma vediamo cosa si può fare.”
Ecco, è sempre così. L’utenza si lamenta dei ritardi negli appuntamenti, ma lei cosa ci può fare? Non è certo colpa sua se le persone arrivano con domande improbabili ad orari impossibili e senza documentazione necessaria. Solitamente una persona come sta tale Liesi le avrebbe fatto scappare la pazienza e l’avrebbe già cacciata fuori dal suo ufficio, intimandole di ritornare solamente quando tutte le carte fossero state in regola. Ecco, appunto: solitamente. Oggi no. Oggi questo è l’ultimo appuntamento e se non trova il modo di prolungarlo fino all’orario di chiusura le toccherà nuovamente andare in archivio. Hanno iniziato la digitalizzazione dei documenti cartacei. Ottantacinque anni di scartoffie da scansire, catalogare, smistare, ordinare. Di rinchiudersi in quel bugigattolo polveroso non ne ha proprio voglia. Benedetta sta Liesi e la sua domanda impossibile.

“Ecco Signora. I terreni e i ruderi a cui si riferisce sono i mappali dal 147 al 164.”
Lucia sorride timidamente: “ Di chi sono?” “Tutti i mappali, tranne uno, sono del comune. Il 153 è del Signor Prizziello.” Lucia guarda sulla mappa a video. Bella estensione di terreno, non c’è che dire. Occhio croce 70 ettari meno uno. L’ettaro di Prizziello è in mezzo all’altopiano, come un neo sul volto di una nobildonna settecentesca.

“Il comune vende i propri terreni?”
Lucia non sa bene cosa le sia preso, ma la domanda è nata spontanea.
“Il comune si priva solamente di terreni che sono un costo e da cui non rientra alcun beneficio, direi che questi terreni – considerando gli oneri per la pubblica sicurezza, le imposte statali di catasto e l’assoluta inutilità degli stessi – possono essere candidati alla vendita. È interessata?” Lucia è interessata. Entro due settimane riceverà una proposta di vendita dal comune. Al lotto di Prizziello ci penserà a tempo debito.

Appunto: perplessa è il termine giusto. Lucia scende dal treno.
“Ma cosa diavolo ho combinato?”
Un piccione la guarda stranito. Il pennuto non si ritiene intelligente, ma un umano che parla da solo sicuramente lo è meno di lui. Lucia scansa l’uccello che sembra guardarla sovrappensiero. Sopra la sua testa passa un Pippo. Pippo: da quando è morta nonna ogni volta che vede un airone pensa a lei. Li chiamava Pippo. Ogni airone per la vecchia garibaldina era un Pippo. Aveva capito tutto la gagliarda, ma Lucia se n’è resa conto troppo tardi.

Avanza assorta nei suoi pensieri. Fabio è d’accordo con la sua pazza idea. È Lucia che alterna positivismo esuberante a insicurezza disfattista. Creare un’oasi. Un’oasi di vita vissuta, un luogo dove far conoscere passato e presente attraverso vecchie pietre, nuovi vitelli e terra imperitura. Un altopiano di pace dove ritemprarsi e riscoprirsi parte di un tutto. Un luogo per tutti e per nessuno. Una microeconomia di scala dove vivere secondo il naturale bioritmo umano. L’acquisto dei terreni è la prima tappa, trovare le braccia per lavorare è la seconda, far arrivare all’altopiano il collegamento internet è un diktat. Fabio senza collegamenti con il mondo non può vivere. Lucia sorride. Di questo discuteranno a tempo debito. Prima deve arrivare la proposta dal comune, prima deve trovare tale Signor Prizziello e prima ancora deve credere in un sogno.

“Nun ce penso minimamente.”
Lucia ha trovato Prizziello.
Ottantadue anni, nessun erede (si è cinicamente informata a priori), una mente lucida e un pugno di ferro.
“Sta vecchia capoccia ne ha viste troppe, ma quel terreno nun se tocca.”
È burbero Prizziello, ma non sembra cattivo. Vive in una casetta che ha visto tempi migliori, circondata da un giardino che rimpiange l’assenza di nipoti. Prizziello è un uomo solo. Da quando è morta la moglie non ha avuto nessuno con cui parlare, ma: “Marí: nun ce penso minimamente a raggiungerti lassù!” Amava la sua Maria. Donna forte, donna di paese. Aveva solo un difetto: era del nord. È a causa sua che Prizziello ha quel terreno. A causa di una scommessa fatta con troppo nocino in corpo.

Trentadue anni, nessun figlio all’orizzonte e tanta voglia di tornare nella sua terra. Maria no. Maria sta bene con le comari del paesino che “non brillano certo d’iniziativa” ma sono una specie di famiglia. I soldi per tornare giù non ci sono, o meglio ci sarebbero. Bisognerebbe vendere la cascina. Abbandonata da qualche anno, ma ancora discretamente integra. Il comune sta acquisendo tutti i vecchi alpeggi. Vogliono creare una colonia elioterapica. Una colonia montana per i bambini di città. Maria non vuole vendere, Maria vuole tenere la sua terra. Non va mai alla cascina, è vero e Nando glielo rinfaccia sempre. Per lei, però, non ha importanza. Importante è sapere che la terra c’è, che il bosco è lì e che le sue radici non sono state estirpate. Potrebbero fare un bel gruzzolo vendendo al comune, Nando avrebbe i soldi per aprire un panifico giù.

Nando e il pane. È nato da una pagnotta il suo Nando, mani in pasta prima ancora di camminare. Generazioni di panettieri, ma qui muratore per dovere e per fame. È sera. Nando ha bevuto parecchio e Maria vuole far fuori la questione nord-sud. Si appresta a una guerra di secessione, a un disfacimento dell’odissea del 1861.
“Se non tocchi una goccia di vino per i prossimi 3 mesi, vendiamo il terreno e andiamo giù.” Nando sa che non ce la farà mai, ma non è abbastanza lucido per reagire. Scommessa persa e una vita al nord. Un terreno: tutta la vita come muratore per un terreno. E ora vogliono portarglielo via.

L’idea che ha esposto Liesi è interessante. Ottantadue anni e nessuno al mondo. Poco da vivere e una fine senza infamia e senza lode. Un progetto: Prizziello vede una luce in fondo al tunnel.
“Il terreno nun te lo do. Nun me scassà!”
Lucia è affranta. Prizziello è irremovibile. Il vecchio sorride sdentato. È un vecchio furbo, non c’è dubbio. È un vecchio solo, ma se tutto va bene ancora per poco.
“Il terreno nun te lo do, ma se i pischelli del comune vendono… io e te facimmo una società!”.
“Per Maria?”
Lucia ha capito, Lucia può cambiare quanto resta da vivere di questo povero vecchio.
“Sì, per la mia Marí!”

“Le statistiche del trenino” continua sabato 3 ottobre 2020 con un nuovo capitolo. Non perdetevelo!

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Inchadney, Splicesound, InspectorJ, SpaceJoe, Hanulskygirl
Musiche incompetech.com: “Teddy Bear Waltz” di Kevin MacLeod

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli